Le avventure dell’Avventura
Michelangelo Antonioni in ”Corriere della Sera”, 31 maggio 1976
☞ La pubblicazione di questo articolo sul blog di Gaetano Barreca è stata possibile grazie alla gentile concessione dei diritti di pubblicazione della regista Enrica Fico Antonioni.
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“Ci sono molti modi di parlare di un film e ci sono molte persone che possono farlo. Critici, scrittori, filosofi, psichiatri, spettatori, persino pittori e architetti. Ma ce n’è uno solo per l’autore: parlare di sé. La cosa può essere facile o difficile. Per me è impossibile. E inoltre sono convinto che quello che un regista dice di sé e della propria opera non aiuta a capire quest’ultima. Tanto meno se si tratta di un vecchio film. E allora è meglio un racconto episodico di ciò che avveniva intorno, durante le riprese. Per quanto frammentario e incompleto, forse è più esplicativo. È così che si fanno i film?
No, non è così. Fu così quella volta dell’Avventura.
Potrei cominciare dalla tromba d’aria, che quando la vidi arrivare impennata sul mare, sfumata in alto come un altissimo fungo con il cappello perso fra le nuvole, gridai all’operatore di portare la macchina da presa, subito, e girare. Ma Monica Vitti aveva paura e allora uno dei pescatori che lavoravano per noi le disse che lui sapeva tagliare la tromba, suo padre gli aveva confidato le parole magiche in chiesa durante una notte di Natale anni prima, difatti le pronunciò e la tromba svanì. E io mi arrabbiai perché quella tromba era esattamente ciò che mi serviva per dare il mistero all’isola, un materiale plastico formidabile, e il giorno dopo volevo licenziare il pescatore ma non potei farlo, si era messo una benda attorno alla testa per riparare dal vento delle Eolie una guancia gonfia come un pallone, un mal di denti improvviso che era una punizione di dio, perché il pescatore aveva preso il suo posto tagliando la tromba.

Ma forse dovrei precisare che tutto questo avveniva a Panarea nelle Eolie e che tutte le mattina con una barca andavamo a girare su uno scoglio che si chiama Lisca Bianca, a venti minuti da Panarea. Quando il mare era calmo si vedevano sbuffi di vapore venire fuori dall’acqua e sciogliersi in tante bollicine sulfuree. Ma non era mai calmo. Era costante nella burrasca, forza otto, nove. In quel breve tragitto per andare a lisca Bianca rischiavamo letteralmente la vita.
Credo di averlo odiato, il mare. Le navi di linea avevano avevano sospeso il servizio e noi mangiavamo carrube e biscotti ammuffiti. C’erano conigli selvatici sull’isola, ma erano malati. Niente sigarette. E neppure salario. A un certo momento gli operai si misero in sciopero e decisero di tornare a Roma, non appena la nave avesse ripreso il servizio. Fummo costretti ad assumerne altri che sarebbero venuti con la stessa nave. Questo si verificò se non sbaglio un mese dopo. Ma sulla nave i due gruppi si incontrarono e quando il secondo apprese dal primo come stavano le cose non sbarcò nemmeno. Restammo in sei o sette, gli attori, l’operatore, il direttore di produzione e i miei aiuti.
Avevamo imparato a caricarci i proiettori sulle spalle e a costruire praticabili a picco sul mare. Una notte il mare ci impedì di tornare a Panarea e fummo costretti a bivaccare sullo scoglio. Mentre tentavamo di imbarcarci un’ondata aveva strappato una zattera dagli ormeggi e l’aveva spinta al largo con due uomini sopra.

Passai la notte a guardare quell’inferno che era il mare, con l’incubo di quei due in sua balia. Sentivo le onde sbattere contro gli scogli e ne vedevo gli spruzzi illuminati dalla luna salire fino a me, con un salto di ottanta metri. La zattera fu ritrovata all’alba, con i due uomini esausti. Il cielo era sereno, il sole splendente, il mare forza otto.
Monica Vitti in L’avventura
Ricordo anche la traversata per andare a Lipari a visionare, dopo due mesi di riprese, il primo materiale. Guardavamo come fa un fondo valle le onde arrivare e sembrava impossibile che una imbarcazione piccola come la nostra potesse arrampicarsi lassù. Eppure ci riusciva. Onda dietro onda, come un’auto con le curve. Vedemmo il materiale. Ma parve orrendo.
Vedemmo il materiale. Ma parve orrendo.
Da Panarea si poteva telefonare, questo sì. C’erano due apparecchi radio, ricevente e trasmittente, residuati di guerra americani. Il motore che forniva energia a questi apparecchi era di quelli con l’avviamento a mano; come le vecchie auto. L’impiegato postale aveva spesso un braccio al collo, se lo rompeva avviando il motore. Ma quanto stava bene si comunicava. Accadeva che chiunque avesse una radio portatile sull’isola poteva sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda dell’apparecchio trasmittente e ascoltare le conversazioni.
L’umore di tutti era così diffuso nell’aria, le stradine di Panarea riempivano di frasi amorose a tutto volume. O di insulti. I miei a quelli di Roma che tardavano a trovare un nuovo produttore. Quello originario infatti era sparito alle prime difficoltà e non c’era più nessuno alle nostre spalle. Ma non importava. Avevo con me ventimila metri di pellicola, potevo continuare a girare. Il mio problema era un altro, come raccontare la verità del film e intanto far tacere le altre che pullulavano ai margini, che premevano con tanta forza? Assumere le une come misura delle altre?
Naturalmente avrei preferito nascondere preoccupazioni e amarezze ai miei compagni di lavoro, l’avvilimento che provavo per essere costretto a imporre loro quell’assurdo modo di vivere e lavorare. Se questo era il cinema, cos’era il cinema?
Ci sono dei film gradevoli e dei film amari, dei film leggeri e dei film dolorosi. L’avventura è un film amaro, spesso doloroso. Il dolore dei sentimenti che finiscono o dei quali si intravvede la fine nel momento stesso in cui nascono. Tutto questo raccontato con un linguaggio che ho cercato di mantenere spoglio di effetti. Dicono che il film sia “articolato su un ritmo disteso, in rapporti di spazio e di tempo aderenti alla realtà”. Non sono parole mie. Parole per dire queste cose, ne ho pochissime a disposizione. Faccio un esempio.

Tutti si chiedono vedendo il film: dov’è finita Anna? C’era una scena in sceneggiatura, poi tagliata non ricordo perché, in cui Claudia, l’amica di Anna, è con gli altri amici sull’isola. Stanno facendo tutte le congetture possibile sulla scomparsa della ragazza. Ma non ci sono risposte. Dopo un silenzio uno dice: “Forse è soltanto annegata”. Claudia si volta di scatto; “Soltanto?”. Tutti si guardano sgomenti.
Ecco, questo sgomento è la connotazione del film.”
Michelangelo Antonioni, in ”Corriere della Sera”, 31 maggio 1976
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NOTE: La tromba marina di cui Antonioni scrive è stata ripresa ed è ben visibile nel film L’avventura al minuto 27:46s
Riconoscimenti al film L’avventura
- 1960 – Festival di Cannes
- Premio della giuria a Michelangelo Antonioni
- Nomination Palma d’oro a Michelangelo Antonioni
- 1961 – Premio BAFTA
- Nomination Miglior film straniero (Italia)
- Nomination Migliore attrice internazionale a Monica Vitti
- 1961 – Nastro d’argento
- Miglior colonna sonora a Giovanni Fusco
- Nomination Regista del miglior film a Michelangelo Antonioni
- Nomination Miglior soggetto a Michelangelo Antonioni
- Nomination Migliore attrice protagonista a Monica Vitti
- Nomination Migliore attrice non protagonista a Lea Massari
- Nomination Migliore fotografia a Aldo Scavarda
- 1961 – Globo d’oro
- Migliore attrice rivelazione a Monica Vitti
- 1961 – Grolla d’oro
- Migliore attrice a Monica Vitti

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