Avevo sedici anni quando, a scuola, la mia professoressa di Storia dell’arte aprì il libro e iniziò a leggere il racconto/scontro tra il Brunelleschi e Donatello. Venni colto da un’emozione incredibile, i miei occhi abbandonarono le righe del mio testo per osservare con quanto entusiasmo leggeva quel racconto.
Era il 1425 quando Donatello, in Santa Croce a Firenze presentò il suo crocefisso. All’epoca il Cristo veniva generalmente rappresentato come un uomo bello, perfetto e divino, costretto in terra al supplizio della croce.
La concezione di Donatello era quella di creare, al contrario, la statua lignea di Gesù in croce come un semplice uomo, malandato e soffrente, più vicino alla realtà umana, colto nel momento dell’agonia: occhi semiaperti, bocca dischiusa, corpo sgraziato. Un’opera assolutamente stupenda, realistica, che sconvolse e indignò i potenti dell’epoca. Ne rimasi esterrefatto!
È alla mia professoressa che devo la mia voglia di sapere e la passione travolgente per il meraviglioso mondo della storia dell’arte e dell’archeologia, è lei che mi ha insegnato che dietro ogni opera d’arte c’è una storia nascosta da raccontare. Ed è con voi che voglio condividere il sapere dimenticato di questo mondo. Facendovi sentire partecipi di questa controversia, vi propongo lo scritto dello storico Vasari, dandovi l’opportunità di leggere un testo antico, che risale a più di 500 anni fa.
Dal suo Trattato di “Vite dei più eccellenti architetti, pittori e scultori italiani” (1550-1568) il Vasari scrive:
« Fece con straordinaria fatica un crucifisso di legno, il quale quando ebbe finito, parendogli aver fatto una cosa rarissima, lo mostrò a Filippo di ser Brunellesco suo amicissimo, per averne il parere suo; il quale Filippo, che per le parole di Donato aspettava di vedere molto miglior cosa, come lo vide sorrise alquanto. Il che vedendo Donato, lo pregò, per quanta amicizia era fra loro, che gliene dicesse il parer suo; per che Filippo, che liberalissimo era, rispose che gli pareva che egli avesse messo in croce un contadino e non un corpo simile a Gesù Cristo, il quale fu delicatissimo, et in tutte le parti il più perfetto uomo che nascesse già mai. Udendosi mordere Donato, e più a dentro che non pensava, dove sperava essere lodato, rispose: “Se così facile fusse fare come giudicare, il mio Cristo ti parrebbe Cristo, e non un contadino: però piglia del legno e pruova a farne uno ancor tu”. Filippo, senza più farne parola, tornato a casa, senza che alcuno lo sapesse, mise mano a fare un Crucifisso, e cercando d’avanzare, per non condannar il proprio giudizio, Donato, lo condusse dopo molti mesi a somma perfezione. E ciò fatto, invitò una mattina Donato a desinar seco, e Donato accettò l’invito. E così, andando a casa di Filippo di compagnia, arivati in Mercato Vecchio, Filippo comperò alcune cose, e datole a Donato, disse: “Aviati con queste cose a casa, e lì aspettami, che io ne vengo or ora”. Entrato dunque Donato in casa, giunto che fu in terreno, vide il Crucifisso di Filippo a un buon lume, e fermatosi a considerarlo, lo trovò così perfettamente finito, che vinto e tutto pieno di stupore, come fuor di sé, aperse le mani che tenevano il grembiule. Onde cascatogli l’uova, il formaggio e l’altre robetutte, si versò e fracassò ogni cosa; ma non restando però di far le maraviglie e star come insensato, sopragiunto Filippo, ridendo disse: “Che disegno è il tuo, Donato? Che desinaremo noi avendo tu versato ogni cosa?”. “Io per me”, rispose Donato, “ho per istamani avuta la parte mia, se tu vuoi la tua, pigliatela. Ma non più, a te è conceduto fare i Cristi, et a me i contadini. »
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