Estratti e Racconti

Rita Atria, la vera storia di una siciliana ribelle

13 GIUGNO 1998

Qualche sera fa, in tv trasmettevano un film documentario, “Diario di una siciliana ribelle” un film di Marco Amenta. Il titolo m’incuriosiva, così ho deciso di registrarlo. Adesso non posso fare a meno di raccontare la vita di questa ragazza, così incredibile che mi ha intenerito e terrorizzato. Una vicenda strettamente legata alla storia del nostro paese, una nuova Italia che vive, che spera. Uno scontro spietato tra modi di vivere e concepire la vita. Il film inizia con la sua prima deposizione:

“Mi chiamo Rita Atria, nata a Partanna (Trapani) il 4 settembre 1974, studentessa. Sono la sorella di Atria Nicola, ucciso a Montevaco il 24 giugno 1991. Mi presento alla Signoria Vostra per fornire notizie su episodi e circostanze che riguardano la morte di mio fratello e all’uccisione di mio padre, avvenuta a Partanna nel 1985. Ma più in generale, per fornire notizie sull’ambiente in cui tali episodi vennero a maturare”. A soli diciassette anni e mezzo decise di collaborare con la giustizia. Dopo il terzo verbale, riempito alla presenza del giudice Morena Plazzi il 3 dicembre 1991, Rita Atria diventò un “caso” di competenza giuridica della Procura di Marsala. Paolo Borsellino, nell’intento di proteggere l’incolumità personale della ragazza, decise di farla trasferire a Roma sotto falsa identità. Borsellino chiamava Rita “a picciridda”. Fu difficile per i magistrati spiegare a Rita che il padre non era questa figura biblica che lei credeva. Al contrario, fu facile per il padre innescare relazioni di gratitudine e colpevolezza con molta facilità nella mente della bambina. Un giorno la prese sulle ginocchia e le raccontò che lei esiste perché papà ha voluto, mentre la mamma la voleva morta. Voleva fosse il bastone della sua vecchiaia e Rita ne era felice. Don Vito era un uomo di rispetto. Era stato ribattezzato il “paciere”, colui che sa dirimere qualsiasi problema. Era la classica figura del mafioso agricolo degli anni ’70.

«Mio padre – sosteneva Rita – si occupava di tutto questo, per quanto ne sappia io, senza ricavarne particolari vantaggi economici, ma soprattutto per questioni di principio e di prestigio negli ambienti di Partanna che contano».

Era onorato e riverito dall’intero paese. Aveva anche la fama di essere un discreto dongiovanni, un maschio siculo ardente. Solo con gli Accardo chinava il capo: la famiglia da sempre rispettata del paese. Senza la loro protezione don Vito sarebbe stato “niente ammiscato cu’ nuddu”. Don Vito commise però un grave errore, quello di non capire che il tempo del benessere costruito rubando bestiame e vendendo e affittando terreni era finito, e che la giostra del potere mafioso si muoveva ora grazie ai soldi del narcotraffico. Questo errore gli costò la vita; venne ucciso nella prima guerra di mafia, il 18 novembre del 1985, una sorta di cambio generazionale ai vertici di “Cosa nostra” della zona. Sostenne Rita:

«Fu mio fratello Nicola a indicarmi sia il movente che le persone interessate a eliminare mio padre. Nicola riteneva che papà svolgesse una funzione di mediatore tra diversi interessi facenti capo alle persone più importanti di Partanna, persone che si riunivano per decidere soprattutto su affari illeciti riguardanti tutto il paese».

«Prima degli anni ’80 –spiegò Rita ai giudici di Marsala – le attività fondamentali della cosca consistevano nei furti d’animali, in interventi nella spartizione degli appalti, in un’intermediazione nell’attività illecita che si svolgeva nel territorio… Nicola mi riferì che negli anni ’80 aveva cominciato a circolare la droga e che mio padre, insieme agli Ingoglia, i Petralia, si erano opposti a tali traffici, ma inutilmente, poiché la decisione finale spettava sempre agli Accardo».

Rita era dunque una testimone e una custode dei segreti di mafia della famiglia e del paese. I suoi diari segreti, furono presi agli atti. Era a conoscenza dei traffici illeciti, della gerarchia degli uomini d’onore, di cosa si muoveva e cambiava nel suo paese. Il suo ruolo di donna di mafia sarebbe dovuto consistere proprio nella capacità di sapere e di tacere, di proteggere così la forza e l’onore della famiglia. Segreto e omertà. Dal giorno dei funerali del padre, Rita rimugina vendetta: adorava suo padre e dopo la sua morte aveva riversato questo sentimento sul fratello, uomo indipendente, che a differenza di lei aveva potuto già andare via da casa. Rita lo andava a trovare ogni giorno al bar di Montevago, Nicola era diventato ricco e molto ambizioso. Si era dato al malaffare, girava sempre armato, era nel giro della droga, rimaneva però sempre un “pesce piccolo”.

Il 24 giugno 1991 anche Nicola Atria venne ucciso. Due mesi dopo Piera Aiello, moglie di Nicola, a cui mai erano piaciute le frequentazioni del marito, iniziò a parlare con i carabinieri di tutto quello che sapeva riguardo la mafia del paese. Non era mai stata donna di mafia, parlò e fece arrestare parecchie persone. Partanna s’indignò. Calogero, il fidanzato di Rita, la lasciò, perché uno come lui non voleva stare con la cognata di una pentita. Rita rimase sola: stava tutto il giorno rinchiusa in casa con la madre, una donna silenziosa, sola. Piera fu trasferita a Roma per motivi di sicurezza, le diedero una casa e un sussidio per vivere. Abbandonò la realtà mefitica di Partanna fregandosene di chiacchiere e maldicenze. Anche la confessione di Piera Aiello dimostra come in realtà le donne sappiano ma non parlino:

«Io non ce l’ho con i partannesi, ce l’ho con le vedove dei partannesi. Loro a voi possono dire che non sanno niente, ma a Piera Aiello questo non lo devono raccontare. Una donna lo sa sempre cosa sta combinando suo marito o suo figlio».

Giovanna, la madre di Rita, da sempre ostile al ruolo di “collaboratrice di giustizia” della figlia (che nel codice mafioso diventa “spiuna”), le diceva sempre:

«Rita, non t’immischiare, non fare fesserie».

Giovanna si considerava una donna moderna, faceva tutto per garantire un radioso avvenire a sua figlia, le aveva anche permesso di andare a studiare a Sciacca, di affittare una casa con altre studentesse. Altro che donna all’antica. Ma che la figlia si mettesse in testa di fare la spiona, no, questo non aveva potuto sopportarlo. Rita era cresciuta proprio come voleva la madre, brava a scuola, niente grilli per la testa; ed era andata fiera di questo risultato. Da quel momento per Rita cominciò un difficile e intimo “viaggio nella solitudine”. Si trasferì a Roma e andò a vivere con la cognata, continuando il suo rapporto con la giustizia. In seguito al rifiuto della sorella nell’incontrarla a Milano, Rita disse a sua cognata che aveva bisogno di riflettere che il giorno dopo sarebbe andata in giro per Roma. Andò in Vaticano, ma si sentiva osservata, seguita. Uscita dai musei si sedette sugli scalini, le si presentò un ragazzo. Rita saltò in piedi chiedendogli cosa volesse, Gabriele, il suo angelo nella battaglia, voleva solo conoscerla. Rita era finalmente felice, trovò il suo “raggio di sole in un giorno di temporale”. Raccontò la verità, che era una collaboratrice di giustizia, Gabriele la accettò. Sembrava cancellato il passato di dolore di Rita, finalmente a Roma aveva trovato un fidanzato, si dovevano sposare presto. Ma il 23 maggio 1992, ci fu la strage di Capaci, dove Giuseppe Falcone e la sua scorta persero la vita. Rita iniziò a temere per la sua di vita. Molti collaboratori di giustizia si tirarono indietro, l’Italia aveva paura.

Il 19 luglio 1992, poi, Paolo Borsellino venne ucciso. Rita diceva: “Ora è tutto finito”, si sentiva abbandonata da Dio e da tutti. Iniziarono i presagi di morte, a Rita diedero casa per vivere con il ragazzo, la via dove si doveva trasferire era via Amelia, il nome era lo stesso dove era morto Paolo Borsellino. Rita nel suo diario scrisse:

“Nel cielo ci sono milioni di stelle in ognuna c’è un piccolo segreto, ognuna ha un lungo viaggio da compiere e una di esse la più piccola, la più lucente, la più lontana sta compiendo per me il più lento e il più lungo dei viaggi per arrivare in un luogo chiamato infinito. Proprio lì nell’infinito un giorno potrò abbracciare le mie stelle. Quelle stelle che avranno il potere di illuminare l’immensità del cielo e che nessuno potrà più spegnere mai”. “Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita… Prima di combattere la mafia devi farti un’auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici; la mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci. Borsellino sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta. Bisogna rendere coscienti i ragazzi che vivono nella mafia, che al di fuori c’è un altro mondo, fatto di cose semplici ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei non perché sei figlio di quella persona o perché hai pagato per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non ci sarà mai, ma se ognuno di noi prova a cambiare ce la faremo”.

Il 26 luglio del 1992, 7 giorni dopo la morte di Paolo Borsellino, Rita venne ritrovata morta ai piedi del suo palazzo in Via Amelia, le indagini portarono al un suicidio.

Sulla lapide di Rita Atria c’è oggi una scritta: “La verità vive”

dal Martini Bias Crime, Io sono Amore di Gaetano Barreca

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