Di Ruderi e Scrittura

La Masciàre e il ragazzo. Storia vera del quindicenne che salvò Bari dai Nazisti – racconto

Estate 1943. Un gruppo di giovinastri di fede fascista irrompe in un vicolo di Bari vecchia con una curiosa richiesta: una indagine su una gatta masciàre (donna dedita a pratiche di magia nera).

L’Arco della Neve – settembre 1943

Racconto tratto dal libro La Tagliatrice di Vermi e altri racconti, di Gaetano BarrecaWip Edizioni.

«Riprova!» lo rimproverò il maestro di canto. «Le mani non vanno entrambe alla pancia. Metti le dita della destra appena sotto il pomo d’Adamo. Devi sentire le corde vocali vibrare, ti ho detto.»

Cercando di non far brontolare troppo lo stomaco, puntando con gli occhi un pezzo di pane nero stantio sulla dispensa di don Cesare Franco, Alfredo provava e riprovava il Salve o Nicola Fulgido. Era determinato a fare una bellissima figura alla Basilica, quella domenica. Il maestro gli ripeteva sempre che, secondo Sant’Agostino, una bella voce bianca poteva arrivare a Dio e dunque avere più efficacia di mille preghiere. Alfredo credeva fermamente a quelle parole. Tanto da aver promesso ai suoi amici, Rosa Mininni e Michele Romito – e soprattutto a tutta la Città Vecchia –, che avrebbe perfezionato così bene l’intonazione del suo canto che San Pietro avrebbe spalancato i cancelli del paradiso per farlo arrivare a Dio. Il Signore avrebbe ascoltato la sua supplica e, insieme a Gesù, San Nicola e a tutti i santi, avrebbe messo al più presto fine a quell’orribile guerra.

«Riprova!» lo esortò ancora il maestro.

Alfredo drizzò la schiena pronto a prendere fiato, quando la sua attenzione fu catturata all’improvviso da un urlo proveniente da fuori. “Che succede?” si chiese. Fece un balzo fino all’infisso, per vedere oltre i vetri offuscati dalla polvere dei detriti. La sagoma del castello si stagliava in lontananza. Tra le sbarre di legno della finestra intravide un uomo dimenarsi dal pianto e dal dolore, mentre si faceva strada tra i muri abbattuti. Alfredo riconobbe il nonno di Rosa correre con affanno verso l’Arco della Neve, dove il figlio aveva la neviera. Era storpio, l’uomo, e quella fretta non era da lui.

«Alfredo, che fai? Non distrarti» lo richiamò con crescente severità il maestro. «Alfredo!»

«Stanno arrivando!» squarciò il meriggio la voce dell’anziano. «Sono già al teatro, al Piccinni! Hanno detto che vogliono trovare tutte le finestre spalancate. Spare…» gli si mozzò il fiato. «Spareranno, per Dio! Dicono che spareranno contro le persiane chiuse.» Pianse sconfitto e come fosse un corpo privo di vita si lasciò cadere sul terreno, sbattendo le ginocchia già deboli sulle macerie di quel quartiere in cui non erano rimaste che poche anime. «Hanno minacciato di voler entrare alla neviera! Io non lo so quello che cercano.»

Alfredo portò lo sguardo incredulo e spaventato al maestro, che lo raggiunse alla finestra. Non riuscendo a capire cosa stesse accadendo, con forza staccarono i chiodi dalle assi, poste per impedire il frantumarsi dei vetri durante un probabile bombardamento del vicino porto. Infine spalancarono le ante, facendo cadere uno strato di cacate secche di colombi. Affacciati sulla piazza del castello, videro l’insaccaneve uscire di corsa da sotto l’Arco per soccorrere il padre e poi continuare il messaggio interrotto: «Vogliono vedere tutte le donne affacciate…» gridò «alle finestre, ai balconi e ai muretti, con le mani bene in vista. Spareranno alle finestre chiuse!»

«Ascoltate tutti!» si aggiunse al grido una marmaglia di adolescenti che rientrava dal lavoro al porto. Arrivarono con camicie lacere o solo calzoncini. «Gli alleati vogliono vedere tutti fuori. Scendete in strada. Presto!»

Con il maestro e i vicini, Alfredo si fiondò in strada. Alcuni di loro erano a piedi nudi, sulle spalle e tra le braccia coperte afferrate di gran fretta per l’improvvisa evacuazione e negli occhi una profonda paura. Erano per la maggior parte donne, con in braccio infanti o bambini denutriti. Gli uomini in salute erano tutti in guerra.

Michele Romito, che come gli altri ragazzi lavorava al porto vecchio per aiutare gli alleati tedeschi, raggiunse gli amici schierati davanti all’Arco della Neve, quasi a bloccare l’ingresso alla Città Vecchia. Anche Rosa era in strada e, dopo averla rassicurata con un abbraccio, Michele guardò con speranza Alfredo, per sapere se la sua voce bianca avesse sortito qualche risultato. Alfredo alzò le spalle e dichiarò la disfatta con un movimento di dissenso della testa.

«Michele! Michele!» Gli fece distogliere lo sguardo il padre di Rosa, l’insaccaneve. «Vieni dal porto, vero?»

«Sì, signore!»

«Che sta succedendo?»

«Un gruppo della Gioventù Italiana del Littorio ha scatenato una sommossa dicendo di voler raggiungere la Città Vecchia. Erano armati, ma a quanto si sa il Generale Bellomo è riuscito a fermarli chiedendo spiegazioni. Noi abbiamo avuto il permesso di lasciare il porto di corsa per il rischio di un conflitto a fuoco. Pensavamo fossero gli inglesi.»

«I G.I.L.? Ancora quei montati di testa…»

«Siamo salvi, allora?» chiese una donna avvicinandosi. «La radio ha detto che il Duce ormai è stato deposto. Non ci succederà nulla, vero? Nessuno ci farà del male. La guerra è quasi finita.»

«La guerra finirà quando i nostri uomini ritorneranno a casa» disse severa una vicina.

Da lontano, il vento soffiò un canto crescente.

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Duce, Duce, chi non saprà morir?

Il giuramento chi mai rinnegherà?

Snuda la spada! Quando Tu lo vuoi, gagliardetti al vento, tutti verremo a Te!

«Pare che belino» disse il maestro schernendoli.

Armi e bandiere degli antichi eroi, per l’Italia, o Duce, fa balenar al sol!

«Stanno arrivando! È stato un diversivo!» gridò la donna presa dal panico. «Vogliono entrare all’Arco.»

«State calmi. Tutti calmi!» strillò l’insaccaneve.

«È tutta colpa vostra! Non avreste mai dovuto…»

«State calmi! Cerchiamo di non farli entrare in città o sarà un massacro.»

«Presto!» si affrettò Michele spintonando i ragazzi per invitarli all’azione. «Dobbiamo spostare gli armamenti!»

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«No!» fece ostruzione l’insaccaneve. «Non possiamo creare sospetti. Sparerebbero all’impazzata. Lasciamo tutto qui, lasciamo la neviera incustodita.»

«Ma così…»

«Esegui gli ordini, ragazzo! Quando sarà finita, trasporterò tutto in un altro luogo.»

L’insaccaneve non si stupì che i ragazzi sapessero cosa era custodito nella neviera. Anche se quei giovani erano stati allevati al principio nazionalista di libro e moschetto propagandato dal regime, pochi avevano gradito l’alleanza nazifascista del Duce e ancor meno il passo indietro del Re Vittorio Emanuele III, che aveva dato pieni poteri a Mussolini. Eppure, ora che le valutazioni politiche che avevano indotto anche alcune alte sfere delle gerarchie fasciste a destituire, sfiduciandolo, il Duce, per trarre l’Italia fuori dal conflitto mondiale e dunque prendere accordi con i nemici anglo-americani, il popolo sperava si arrivasse all’epilogo. Una speranza sicuramente vana, visto che si sapeva che Hitler non avrebbe gradito la perdita del suo alleato, ma intanto a Bari Vecchia tutti erano fiduciosi nel successo della voce bianca del piccolo Alfredo. Nonostante i venti di cambiamento, però, nelle città e nei piccoli centri alcune teste calde non avevano capito le scelte politiche del passo indietro del Duce e, in preda ai fumi del potere e del comando, i Giovani Fascisti continuavano a perseguire la lotta non contro i nemici della Patria, ma contro il popolo stesso, cercando di sottometterlo e governarlo a proprio piacimento.

«Eccoli!» tremò la donna.

Per il Duce, o Patria, per il Re!

A Noi! Ti darem

Gloria e Impero in oltremar!

Il manipolo dei cinque G.I.L. si fermò all’ingresso dell’Arco della Neve. Puntarono le mitragliette verso l’alto alla ricerca di finestre chiuse. Spararono alcuni colpi ai piani superiori, seminando il panico tra la gente. A capo dei fascisti, in uniforme di Fanteria del Regio Esercito, con le fiamme a due punte gialle e rosse al bavero, sguardo fiero, mento alto e il berretto di fatica, il fez nero, calcato in testa, si fece avanti Vittorio, Vittorio u zèppe.

«Vedo che siete tutti qui!» si introdusse con far smargiasso.

Molti in città sapevano che la sua spavalderia era una farsa. Nel ‘40 i battaglioni di 25.000 giovani che avevano sfilato alla “Marcia della Giovinezza”, per manifestare il loro entusiasmo nel partecipare alla guerra, erano stati smobilitati senza una vera spiegazione e invitati a rientrare a casa. Facendo parte del V Gruppo, accampato alla Fiera Campionaria di Padova, Vittorio Bottalico arrivò ad ammutinarsi insieme a duemila volontari, incendiando un padiglione per non eseguire l’ordine andarsene. Si presentò poi tra i “volontari ordinari senza vincoli di ferma” per combattere al fronte russo, tuttavia fu il Duce in persona a dare parere contrario, perché quelle unità non potevano essere composte da ragazzi e i giovani volontari sarebbero invece andati in Libia. Vittorio si rifiutò. Ripose i valorosi settimanali illustrati Balilla, spaventato dalla partenza per l’Africa, e si pugnalò alla gamba per essere esonerato. Da qui prese il soprannome di Vittorio u zèppe, (lo zoppo).

I G.I.L. si aprirono la strada puntando i fucili, per raggiungere la porta in metallo della neviera. Il popolo aveva paura. I fascisti bussarono con insistenza. «Aprite! Aprite!» sbraitava Livio, un sottoposto di Vittorio.

Il maestro avanzò. «Sono don Cesare Franco, della Basilica di San Nicola, che cosa succede?»

«Che cosa succede?» fece eco ridendo Livio. «Iniziamo proprio male.»

Vittorio fronteggiò l’anziano maestro. «Abbiamo saputo che una donna è stata trovata morta qua, nella Città Vecchia. Dobbiamo ispezionare le case.»

«Una donna morta, ma di cosa parlano?» bisbigliò Rosa guardando Michele e Alfredo.

«Abbiamo da tempo notato movimenti strani qui intorno e abbiamo il sentore che il corpo sia nascosto nella neviera.

Chi è il proprietario?» Nessuno rispose.

«Chi è l’insaccaneve di questo posto?» tuonò il ragazzo.

«Sono io.» Il padre di Rosa si fece avanti tra la folla.

«Apra la porta!»

«Come volete, ma non fate male a nessuno.» L’insaccaneve sapeva che era la sua fine. Alzò le sopracciglia guardando don Cesare.

Improvvisamente il maestro si portò la mano al cuore e iniziò a gridare, presagendo un infarto. Quasi cadendo a terra, si fece aiutare da uno dei fascisti.

«Portate via questo vecchio!» ordinò Vittorio. «Non possiamo permetterci distrazioni, non ora!»

Don Cesare fu affidato a una donna per essere accompagnato in ospedale. L’insaccaneve tirò fuori dalla tasca il mazzo di chiavi e con frastuono aprì la porta. Si mise alla testa del gruppetto di fascisti e scese le scale, raggiungendo i locali che si trovavano molti metri al di sotto del manto stradale. Provando freddo e ridacchiando come stupidi per il fumo che usciva dalle loro bocche, i giovani iniziarono a spintonarsi per gioco. Smisero solo quando videro i grandi sacchi di saggina e paglia riposti in fila l’uno sopra l’altro. Con la punta del fucile, Livio ne tagliò uno. Del ghiaccio cadde a terra.

«Per favore, no!» disse preoccupato l’insaccaneve. «Questo ghiaccio serve alla gente per curarsi.»

«Perché detiene tutta questa saggina, qui?»

«Serve per non fare sciogliere il…»

«Dov’è sua moglie?» chiese senza farlo rispondere.

«Cosa?»

«La dichiaro in arresto per l’omicidio di sua moglie!»

«Omicidio? Mia moglie? Ma non è possibile!» Due dei giovani fascisti lo presero sottobraccio con forza, tentando di fargli risalire le scale e portarlo chissà dove per essere interrogato. «Ma mia moglie è deceduta anni fa mettendo al mondo mia figlia» affermò disperato. «Mi dovete credere. Chiedete a chi volete.»

Fuori dalla neviera, Vittorio gridò: «Dunque, insaccaneve, lei nega pubblicamente che la donna che è stata trovata morta fosse sua moglie?»

«Quale donna?» si chiese guardandosi attorno. «Nessuno sa nulla di una donna morta trovata a Bari Vecchia»

«Lei dice?» Il fascista sorrise. «Livio, leggi l’articolo.» Dicendo così, Vittorio portò l’indice al cielo. «Ascoltate tutti!»

Il G.I.L Livio iniziò a leggere: «In una notte incerta, una donna non meglio identificata fu rinvenuta morta e senza abiti tra i vicoli della Città Vecchia. Un uomo, la cui moglie era sospettata di stregoneria, aveva trovato nascosto dietro a dei sacchi l’olio magico che la donna usava per trasformarsi in una gatta, prima di lanciarsi unta e nuda nel vuoto. L’uomo aveva svuotato la boccetta in cui era contenuto e l’aveva sostituito con purissimo olio di oliva. Quando la strega salì nuovamente sul parapetto, si denudò e passandosi l’olio recitò la formula d’uso:

Sop’a spine e ssop’a saremìinde

M’àgghi’acchìa a Millevìinde.[1]

Il solito incantesimo non si compì. Ma la donna ignara si buttò comunque nel vuoto e, spiaccicandosi al suolo, morì sul colpo.»

I presenti si guardarono sbigottiti, e increduli si domandarono dove quei ragazzi volessero arrivare. Era tutta una messa in scena per accaparrarsi le armi dei rivoltosi, oppure quei giovani erano degli esaltati alla ricerca di chissà quali poteri misterici?

«Di cosa sarei accusato io?» chiese con voce mozza l’insaccaneve.

«Lei ha tutta questa saggina e quindi, ipotizzando che sua moglie fosse una strega, immagino sia stato lei a sostituire l’olio e uccidere la donna.»

«Lo ripeto…» disse paziente «questa è una neviera. La saggina insieme alla paglia serve a conservare il ghiaccio. Come potrei non usarla? Non potendo permettersi i medicinali, qui la gente usa il ghiaccio per curare le infezioni, la febbre e quant’altro.»

«Dunque mi conferma che sua moglie era una strega. Questa è stregoneria!»

L’insaccaneve gli avrebbe dato un cazzotto in faccia, ma per dominare il nervosismo serrò con forza le labbra e strinse i pugni. Era chiaro che il ragazzo volesse solo portare scompiglio fra la popolazione.

«Voi!» Vittorio si girò verso Rosa e i suoi amici. «Avete visto qualcosa di inusuale in città?»

Alfredo si fece avanti. «Io!» rispose a fronte alta. «Io ho sentito dire che le streghe masciàre, così si chiamano, sono donne non timorate di Dio, alleate con il demonio.»

«Continua.»

«Chiunque di noi, rientrando a casa a ora tarda, incontri nei vicoli della Città Vecchia una gatta sospetta, deve farsi il segno della croce e recitare contemporaneamente queste parole:

Driana mèste ca va pe la vì, Dègghia ngondrà Gesù, Gesèppe e Marì.

Se la gatta è masciàre, si trasforma in una donna, altrimenti era solo un forte spavento. C’è da aggiungere che le masciàre devono rientrare all’alba, entro il primo tocco di campana della Cattedrale, perché rischiano di ritornare umane, e nude divengono bersaglio della furia del popolo.»

«Da chi hai avuto queste notizie?»

«Mia nonna ne parlava.»

«Portaci da lei!»

«Non posso, è morta la scorsa notte.» Tenne testa.

La tensione si fece alta.

«Ti arresto per mancata deposizione…»

«Se vi interessano queste storie…» disse ancora Alfredo per allontanarli dalla neviera «allora forse dovreste venire con me all’Arco delle Streghe.»

«L’Arco delle Streghe?»

«Secondo voi perché gli architetti del Duce non sono mai riusciti a radere al suolo la Città Vecchia per far posto alla Galleria Mussolini? Pensate davvero che un uomo potente come il Duce si sia fatto raggirare da comuni architetti, rinunciando alla sua grandezza? La Città Vecchia è protetta da loro, dalle streghe!»

I G.I.L. erano sempre più coinvolti nell’ascolto e Alfredo li stuzzicò ancora: «Nessuno tra di noi sa chi siano, ma si dice che sia proprio lì, all’Arco delle Streghe, che si riuniscono ogni notte prima di trasportarsi a Benevento.»

«Questo lo so» disse Vittorio. «Le streghe di tutto il mondo si riuniscono a Benevento per il sabba sotto un albero di noce.»

«Bene! Dovreste appostarvi di notte per stanarle e poi farci quello che volete.»

«Interessante. Mi piaci ragazzo. Portaci a quest’arco.» Lo spintonarono con il pugnale attaccato alla canna del fucile.

«No! Lasciatelo» gridò Rosa.

Vittorio alzò la mano per sferrarle uno schiaffo.

«Che state facendo?» Il Generale Bellomo gli afferrò la mano, fermando quell’azione violenta. Don Cesare Franco gli era accanto.

«Generale Bellomo» disse sorpreso Vittorio.

«Lasciate stare questa gente.»

«Sono pezzenti!»

«Andate via» gli fece fronte.

«Quanta serietà. Stavamo solo scherzando.»

«Tu, piccolo…»

«Non osi dire un’altra parola» minacciò Livio. «Vittorio è uno dei Giovani del Duce.»

«Il Duce è stato deposto. Dovresti rispettare la scelta del

Nostro Re.»

«Il Duce tornerà!» si infervorò Livio.

«Sì, il Führer lo libererà!» gli fece eco un altro. «Gli alleati non amano il Maresciallo d’Italia Badoglio. Hitler troverà e libererà il Duce!»

«Vedremo» rispose Bellomo.

«Dovrebbero incriminarla per crimini di guerra, Generale» si fece forza Vittorio, offeso.

«Un giorno forse lo faranno, ma intanto sono un tuo superiore. Non vorrai rischiare l’insubordinazione, soldato? Schiena dritta! Stai sull’attenti quando ti parlo» gli strillò in faccia.

Il ragazzo strinse i pugni mettendosi sull’attenti a testa alta, con le lacrime che iniziavano a inondargli gli occhi.

«Puoi andare, soldato.»

«Maledetto!» sussurrò Vittorio portando lo sguardo al terreno. Poi riprese il sorriso, tirò su il muco e sogghignando disse: «Andiamo, ragazzi. Qui oggi non è aria.»

Il gruppo della Gioventù Italiana del Littorio si lasciò il popolo e l’Arco della Neve alle spalle. In marcia, Livio un po’ scocciato domandò: «Andiamo via così? Quelli si sono fatti beffe di noi, persino quel vecchio maledetto di un prete.»

«Torneremo» lo rassicurò Vittorio e, guardando il Generale con la coda dell’occhio, aggiunse: «Torneremo con un nuovo piano. La Città Vecchia dovrà soccombere al nostro volere. Le streghe del fascio ci aiuteranno.»

* * *

Il Generale Bellomo sapeva della resistenza. Era gente del popolo, non schierata con nessuna fazione, mossa dall’intento di preservare l’incolumità dei propri cari. Ringraziò tutti i presenti per aver tenuto testa a quella bravata dei fascisti e poi si rivolse ad Alfredo: «Sei tu la voce bianca di cui tutti parlano?»

Alfredo fece un cenno con la testa e, per distendere quei volti ancora terrorizzati, il Generale lo invitò a cantare. Il maestro don Cesare Franco gli diede il consenso con un sorriso e Alfredo fece un profondo respiro fino a sollevarsi sulla punta dei piedi. I polmoni erano pieni di grazia divina, iniziò:

Salve, o Nicola fulgido nostro presidio e vanto…

La voce di Alfredo non era mai stata così bella. Era davvero una melodia celeste.

Bari per te s’illumina di nuova luce e incanto, e ti proclama, supplice, celeste Protettor…[2]

Il ragazzo non andò oltre le prime note, che venne ferma-

to dall’urlo di una donna. Con voce trafelata invitava tutti ad accendere le radio. Alle 19:42, i programmi erano stati interrotti prima del tempo dal radiogiornale.

Ente italiano audizioni radiofoniche E.I.A.R. Proclama del capo del Governo. Parla Sua Eccellenza Pietro Badoglio.

«È lui, è Badoglio!» esultò incredula la donna. Tutti fecero silenzio, alcuni ascoltavano con le mani poggiate al cuore, altri abbracciati, altri ancora con i palmi sul viso.

Il governo italiano, si introdusse il Maresciallo con voce monotòna e rauca, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha chiesto un armistizio al Generale Eisenhower, Comandante in capo delle forze anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno a eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza.

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«La guerra è finita! La guerra è finita!» esultarono tutti all’unisono. Tanti iniziarono a piangere, altri corsero in casa per baciare le foto degli uomini che presto sarebbero rientrati dal fronte. Alcune donne uscirono sui balconi e stesero dei panni colorati in segno di festa.

«È un miracolo. Un miracolo!» annunciava Michele saltellando tra la folla. «Alfredo! Alfredo! Ci sei riuscito!»

Era la notizia che tutti aspettavano. Nessuno pensò di rispettare il coprifuoco: fu festa tutta la notte, canti e balli tra le macerie. In quel giorno, anche la Vergine Maria era nata. Presto la ricostruzione sarebbe iniziata. Tutti credettero che la guerra fosse realmente finita.

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2

Il mattino dopo la grande notizia, un fiero giovedì, mentre Alfredo e Rosa rimasero alla Città Vecchia, Michele Romito e i giovani scaricatori del porto si presentarono come sempre al lavoro per fare la cambusa[3], senza nascondere le occhiaie e la gioia della nottata precedente. Si affacciarono su un mare calmo; in lontananza dei bambini cercavano i ricci tra gli scogli e alcune unità di guerra si preparavano a salpare per Malta. Nessuno aveva ancora compreso che i tedeschi non erano più gli alleati, ma i nuovi nemici. Anche se non parlavano la stessa lingua, tra i ragazzi e i tedeschi si era creato un rapporto di subordinazione e affetto, si conoscevano. Poi, inaspettatamente, un reparto di circa trecento guastatori della Wehrmacht penetrò minaccioso nel porto, per demolire le banchine e il naviglio inutilizzabile attraccato. Ci fu sgomento. Confusi come gli italiani, gli ex alleati presero a sparare, inizialmente per creare il panico, ma l’ordine era quello di affondare alcuni piroscafi e risposero quindi con il fuoco alle intimazioni di resa, uccidendo chiunque li volesse ostacolare. Si scatenò l’inferno. Caddero sei baresi[4]. Durante lo scontro a fuoco, Michele e i suoi amici cercarono di rifugiarsi da qualche parte, ma non c’era via di fuga. Rimasero intrappolati. Nel caos riuscirono però a raggiungere le mura di Bari Vecchia e, attraversando piazza San Pietro, si nascosero dietro l’Ospedale Consorziale. Michele sgranò gli occhi e riconobbe il Generale Bellomo con altri soldati: erano tutti feriti. Colpiti, a dir del Generale, da raffiche di mitragliatrice e da schegge di bombe a mano.

Bellomo guardò i ragazzi e disse: «Dovete difendere le vostre case, la vostra città!»

Davanti all’Ospizio mostrò loro alcune casse piene di bombe a mano dal color rosso. Bombe Balilla che l’insaccaneve, con altri partigiani, aveva trasportato lì dall’Arco della Neve la notte precedente, mentre il popolo festeggiava. I ragazzi ne presero a bizzeffe. Michele ne raccolse sei, due in mano e quattro infilate nella maglietta. La battaglia si era spostata tra la Città Vecchia, che forniva riparo, e la zona circostante il castello Svevo e piazza Santa Caterina. «Il Colonnello Vitucci ha ora il comando, andate! Andate!» gridò il Generale.

Nella sua corsa coraggiosa verso il ponte di San Nicola, per difendere la città e i suoi amici, Michele riconobbe il gruppo di G.I.L.: piangevano terrorizzati, abbracciati l’uno all’altro, rintanati in un angolo della strada, e pregavano Iddio che non succedesse loro nulla. Michele allungò una bomba a Vittorio e disse: «O noi o loro!»

Dal teatro Margherita si udì l’austero cigolio di mezzi pesanti. «Arrivano altri rinforzi!» gridò qualcuno nel caos, presagendo fossero i militari italiani. Ma si sbagliava. Erano invece camion pieni di truppe tedesche, che avevano intenzione di ricongiungersi ai reparti nel porto, per dar loro manforte.

Sulla Muraglia i ragazzi gattonavano per osservare meglio la situazione. Videro arrivare due camion blindati tedeschi, armati con una mitragliatrice che spuntava da una torretta. Sottoposti a un nutrito fuoco di sbarramento dalle finestre del Consorziale e dalla Muraglia, i nazisti volevano rifugiarsi ora nella Città Vecchia. Il primo camion fece in tempo a entrare ma fu fermato davanti al santuario di San Nicola.

«O noi o loro!» ripetettero tutti infondendosi coraggio a vicenda. Michele si alzò di scatto nel momento in cui la torretta del secondo blindato stava attraversando l’arco. Tirò la bomba a mano dall’alto, mirando al serbatoio. Ce la fece. Lo colpì. Esplose. Ne lanciò una seconda e fu l’inferno. Il convoglio si arrestò. Quell’affare di metallo prese fuoco completamente. Gli ingressi ai bastioni erano ora bloccati.

I nemici che provarono a portarsi in salvo dall’esplosione furono catturati. Fu un attimo di tregua. Fuori da quelle mura era tutto un campo di battaglia: bossoli ovunque, paurosi crateri aperti da centinaia di bombe a mano. La tregua non sarebbe durata e, con foga, i ragazzi tornarono a piazza San Pietro per riarmarsi. Lanciarono altre bombe a mano sulle truppe germaniche, che premevano sull’altro lato dell’ospedale Consorziale. Videro morire uno di loro, il giornalaio Giuseppe Barnaba, colpito da una sventagliata tedesca mentre si sporgeva per passare un caricatore a un gruppo di militari. Fu un aspro combattimento.

Eppure, grazie alla bomba lanciata da Michele, i tedeschi compresero che l’azione italiana sarebbe andata avanti a oltranza e dunque, attraverso l’ufficio imbarchi e sbarchi, al Colonnello Vitucci giunse diretta notizia che il Comandante nazista Steiner aveva chiesto di far desistere gli italiani dal fuoco e dare la possibilità ai suoi uomini di lasciare il porto. Era la resa. Erano le 16:20 del 9 settembre 1943.

Quell’evento fu l’inizio della storia della Resistenza in Italia.

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[1] Su spine e su (fra) sarmenti, mi troverò (sarò tra poco) a Benevento (dalla strega).

[2] Il Salve o Nicola Fulgido è una delle composizioni musicali più conosciute di don Cesare Franco (Acquaviva delle Fonti, 24-11-1885 | Bari, 21-1-1944).

[3] La cambusa (dall’olandese kabuis, cucina della nave) è lo spazio destinato, all’interno navi, al deposito, alla conservazione e alla preparazione dei viveri. Il Cambusiere ne è l’addetto.

[4] I nomi dei sei uomini sono riportati in una lapide sulla facciata del Palazzo della Dogana al porto di Bari, che così recita: Alla memoria di coloro che caddero eroicamente per la difesa del porto di Bari 8-9 settembre 1943. Barnaba Giuseppe, Carella Pasquale, Chicchi Michele, Fachin Walter, Leone Domenico, Partipilo Luigi. Ass. Partigiani d’Italia.

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9 risposte »

  1. Pagine di storia che sono moltissime nell’Italia di allora, e che nessuno conoscerà mai perché è impossibile, per la loro grande quantità, inserirli in un testo scolastico. Grazie.

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  2. sarebbe bellissimo che qualche giovane le raccogliesse prima che scompaiano gli ultimi testimoni. Io, quando insegnavo, mi ero ripromessa, nella città in cui abito, di raccogliere queste notizie, portando i ragazzini di terza media presso un piccolo giardino difronte ad una casa di riposo, che ospitava anziani autonomi e lucidi, che passavano lì delle ore, seduti sulle panchine. Volevo che loro potessero intervistarli, ed ascoltare i loro ricordi. Ma non ho potuto attuare questo progetto, per motivi vari sorti all’interno della stessa scuola. Lo scopo era, oltre alla conoscenza della storia recente della città, la capacità di narrare la cronaca orale, e, soprattutto, avviarsi alla capacità della ricerca storica, che non è sempre facile.

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